La necessità di una forte mobilitazione in autunno è sempre più urgente. Una manifestazione che interpreti il disagio, la delusione e la contrarietà agli ultimi accordi che il governo ha fatto sulle pensioni e sulle modifiche alla legge 30.
Tanti elementi ci dicono che questi provvedimenti contraddicono le linee del programma dell’Unione che parlava di abolizione dello scalone e superamento della legge 30.
Rifondazione ha giudicato negativa la revisione dello scalone pur riconoscendo alcuni elementi positivi nell’intesa sulle pensioni (il diritto ad andare in pensione con 40 anni di contributi senza limiti d’età, la riduzione di tre anni dell’età pensionabile per i lavori usuranti, pesanti, notturni, sulla catena di montaggio; ma per questi lavoratori il governo ha introdotto una grave e provocatoria novità, un tetto di 5000 uscite l’anno il che riduce la platea degli interessati), alcuni segnali di equità (una quota di solidarietà per coloro che hanno pensioni alte, il taglio del vitalizio dei parlamentari) e alcune misure per i giovani (la possibilità di colmare i vuoti contributivi per i lavoratori con contratti a termine e il cumulo dei periodi contributivi, il riscatto della laurea).
La proposta di Damiano sul mercato del lavoro e la precarietà non può che accentuare la nostra critica: insieme alla parziale modifica dei contratti a termine vengono conservati i rapporti di lavoro più precari e ridotti i costi della imprese per il lavoro straordinario.
Con questa proposta è chiaro chi è con le nuove generazioni e chi è contro.
Sono contro proprio coloro i quali nelle ultime settimane hanno evocato il pericolo di uno scontro generazionale tra i giovani precari e i sindacati che difendono i lavoratori. Sono gli stessi che vogliono lasciare i giovani sotto le angherie della legge 30. E portano sempre le stesse argomentazioni: visto l’invecchiamento della popolazione il sistema previdenziale così com’è rischia di non far quadrare i conti, è necessario dunque andare in pensione qualche anno più tardi per garantire ai giovani la possibilità di una pensione in futuro. E’ necessario un sacrificio oggi per garantire un futuro al paese domani. Così hanno detto coloro i quali parlano in nome e per conto dei giovani senza sapere che è difficile per quei giovani che grazie alla precarietà non riescono ad immaginare il loro futuro sacrificarsi per il futuro del paese! E’ un pensiero totalmente sconnesso da quella che oggi è la vera e propria antropologia della precarietà, alla quale non riescono a dare risposte. In questi anni abbiamo imparato a concepire la precarietà non solo come modo di produzione (quello del “just in time” per cui si deve produrre solo ciò di cui c’è bisogno ed esattamente nel momento in cui ce n’è bisogno adattandosi alla mutevole domanda del mercato, ogni spreco va evitato e in quest’ottica un contratto di lavoro stabile è uno spreco, meglio il lavoro flessibile, quello di un mese, quello a chiamata ect..) ma come modo di vivere tutto ripiegato sul presente. Il presente è l’unica dimensione che riesci a gestire e questo cambia il modo concepire sé stesso, il proprio tempo fatto di attimi da consumare sconnessi l’uno dall’altro, le relazioni.
Il “tutto e subito” non è solo il moderno consumismo ma diventa anche una strategia di sopravvivenza.
Il tempo della precarietà ci parla invece, per tornare alle pensioni, di altro: del fatto che le pensioni dei propri nonni e dei propri genitori sono una delle poche garanzie per arrivare a fine mese per tanti giovani e quindi del fatto che non sono i giovani a mantenere gli anziani ma che semmai è il contrario. Inoltre è chiaro che se qualcuno va in pensione, e ci va prima, si libererà prima un posto di lavoro per un giovane.
E allora anziché evocare scontri tra presente e futuro perché non si cerca di conciliarli, semplicemente partendo da una politica che non pensi solo ai numeri ma ai bisogni? Che non pensi solo a “sacralizzare” l’equilibrio di bilancio come fine ultimo ma che consideri gli strumenti di politica economica un mezzo al servizio delle necessità delle persone.
Non ha senso negare la crisi sociale.
Da questo governo ci saremmo aspettati altro: una riforma del mercato del lavoro che permetta al maggior numero possibile di giovani di avere un’occupazione stabile, di scegliere la flessibilità in maniera che sia essa ad adeguarsi alla vita e non il contrario. Nonché una riforma del welfare che non significhi taglio della spesa ma adeguamento ai mutamenti sociali: politiche rivolte ai singoli e non alla famiglia che possano garantire un minimo di autonomia, riconoscimento delle nuove forme di convivenza, diritto alla casa, ai trasporti, alla cultura.
Questi ed altri temi, come le tutela dei beni comuni, la difesa dei territori da opere a cui le comunità si oppongono (TAV, base di Vicenza), la riduzione della spese militari, saranno al centro della manifestazione del 20 ottobre. Una “manifestazione delle manifestazioni” che connetta le lotte di questi mesi in un movimento generale che chiede diverse politiche economiche e sociali. La sinistra, quella che fa la sinistra dovrà farsi portatrice di queste istanze in maniera coerente e determinata.