LA DEMOCRAZIA NEL TEMPO DELLE GUERRE E DELLA PRECARIETÀ
GIACOMO SCHETTINI
Si può convenire, non fosse altro per comodità, che la riflessione e il confronto dei contemporanei intorno al rapporto tra democrazia e socialismo ovvero tra democrazia e capitalismo abbiano avuto come punto di riferimento il discorso di Marx, tenuto ad Amsterdam l’8 settembre 1872,’ in cui si rivendicava “l’importanza della lotta dei lavoratori sul terreno politico e sociale contro la vecchia società che crolla”, si affermava che per raggiungere lo “scopo” i mezzi non dovessero essere dappertutto identici, si riconosceva la rilevanza delle istituzioni, delle tradizioni, dei costumi nei vari Paesi e che, quindi, esistevano paesi in cui i lavoratori avrebbero potuto raggiungere i loro scopi con mezzi pacifici. Su questo terreno si svolsero le ricerche e gli approdi di molti marxisti, socialisti, comunisti e, tra questi, di Kautsky e di Bemstein. La rivista Problemi del Socialismo fu uno degli strumenti dell’elaborazione di questa tendenza soprattutto negli anni 1897-98. Contro questa tendenza si schierarono sia Lenin che, pur con diverse motivazioni, Rosa Luxemburg.2 Questa opponeva alla teoria della possibile transizione democratica al socialismo un’analisi che approdava all’incompatibilità del capitalismo con la democrazia. La borghesia avrebbe soppresso la democrazia, quando avesse sentito assediati da questa i suoi interessi. Un’eco preoccupata di questo assedio risuona in alcune pagine di Tocqueville, fino ad assumere la forza di una vera e propria filosofia della prassi che, attraverso l’elaborazione raffinata di un Cari Schmitt o di quella più direttamente operante di un Luman, ha alimentato, nel tempo del neoliberismo, la destrutturazione della democrazia e le pratiche riduzionistiche e decisionistiche. Fascismo e nazismo soppressero la democrazia, dando ragione alla Luxemburg. Il fallimento delle rivoluzioni e dei modelli sociali, sorti da insurrezioni, testimonia a favore di Kautsky e di Bernstein.
Una precisazione necessaria Non è superfluo precisare, a scanso di equivoci, che T’incompatibilità tra democrazia e capitalismo non rappresenta un carattere originario del capitalismo, né una necessità storica, ma un prodotto storicamente determinato delle forme e degli scopi che il capitalismo va assumendo nel vivo di una dialettica sociale e di un gioco di forze materiali e immateriali, ormai a dimensione planetaria. Insomma, mano a mano che le lotte dei lavoratori cercavano di rovesciare l’originario “uguali perché liberi” della Rivoluzione francese nel “liberi perché uguali” del movimento operaio dell’800-900, crescevano i dubbi, le paure e quindi, l’aggressività delle borghesie nei confronti della democrazia, fino a farsi fascismo e nazismo. La stagione dei Consigli che, differenziando ciò che c’è da differenziare, ancora una volta porta ad incontrare Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci, era il tentativo di dare al soggetto storico della sorgente produzione fordista gli strumenti per l’esercizio dell’egemonia e, per questa via strutturare uno Stato che si identificasse con la società civile (Gramsci) o in essa si estinguesse (Luxemburg) . La morte di quella stagione e, sul versante dell’Ottobre russo, dell’esperienza dei Soviet, anche se non fu l’unica causa, certamente favorì l’avvio di una fase, come dire, emulativa e, perciò, declinante del socialismo realizzato. La contrapposizione piano-mercato e l’assunzione della tecnica come capacità illimitata di raggiungere scopi e soddisfare bisogni, combinate con la dittatura del Comitato centrale e con la competizione militare, integravano un modello biecamente quantitativo a fatale prospettiva di crollo. Oggi, non è superfluo ridirlo, ci dobbiamo misurare con il passaggio dall’organizzazione taylorista-fordista a quella informatica-cognitiva. Ho fatto questi sommari e contratti riferimenti, non per dare un quadro esauriente dei precedenti teorici, ma per accennare ad uno scrupolo metodologico: “scorgere il futuro attraverso il passato” e vivere il “presente come Storia”. Il secondo dopoguerra si è aperto e svolto, per un lungo periodo, sullo sfondo di una anomalia: la conventio ad excludendum del Pci e una reale egemonia culturale del Pci e delle sinistre, ciò che accresce e non riduce le loro responsabilità. Fino ai primi anni Settanta, la contraddizione tra capitalismo e democrazia ha avuto un andamento favorevole alle conquiste democratiche e sociali. Queste conquiste, però, erano segnate da vizi gravi, che poi ne provocheranno la crisi: l’equilibrio del terrore, il carattere quantitativo dello sviluppo, l’impronta patriarcale delle relazioni tra i sessi, un deficit di autonomia individuale e collettiva, una scarsa disposizione al riconoscimento e alla comunicazione tra le differenze. L’ispirazione gramsciana guidò l’azione del Pci soprattutto in riferimento alla democrazia progressiva, formula togliattiana, ma di ascendenza gramsciana, come terreno di transizione, di conquista di casematte, di organizZ zione del “novello principe”, dell “intellettuale collettivo” (il partito nuovo, di massa) e delle sue lotte, di esercizio dell’egemonia. Gramsci non fu seguito, purtroppo, nella parte più matura e ancora feconda delle sue riflessioni filosofiche e del suo revisionismo non ancora sufficientemente scandagliato. Mi riferisco alla sua interpretazione del marxismo, non tanto come teoria della giustizia, quanto come teoria della libertà, alla sua idea della politica che, a un certo punto di maturità delle contraddizioni, deve incontrare l’etica. Rosa Luxemburg, in polemica rispetto alla teoria dell’adattamento” di Bernstein, rilevava che il carattere immaturo, cioè non mondiale, delle contraddizioni permetteva ancora “l’adattamento”. Una volta sulle frontiere del mondo, contraddizioni avrebbero posto l’autaut: socialismo o barbarie. Qui la politica e l’etica si compenetrano. Oggi contraddizioni hanno raggiunto questo stadio, tanto da presentarsi addirittura come frattura. Richiederebbero una risposta forte della politica e della democrazia, ma queste soffrono crisi profonda in cui il capitalismo globale e il neoliberismo, pur con le loro Contraddizioni, le hanno precipitate. Una crisi che viene da lontano, ma dopo l’ottantanove ha assunto un carattere organico, non accidentale, di fase storica.
L’illusione di Bernsteln L’affievolimento del ruolo degli Stati nazionali; la forza delle multinazionali, dei centri di potere finanziario (Fondo monetario, Banca mondiale, Wto, Bce); la perdita di rappresentanza del lavoro; la esasperata singolarizzazione dei consumi e persino delle utopie; la colonizzazione delle menti e delle coscienze; la produzione di senso comune e di stili di vita omologati subalterni; l’assorbimento nell’apparato simbolico dominante degli elementi costitutivi della democrazia: il consenso si fa plebiscito, la conoscenza si fa sondaggio, la partecipazione consapevole si fa populismo, spesso la politica si fa spettacolo e i politici si fanno maschere: una profonda rivoluzione passiva. Tutto questo e altro ancora sta alla base dello svuotamento della democrazia e, a ben vedere, anche del riformismo. Bernstein fondava il teorema del riformismo sulla convinzione che lo sviluppo della democrazia avrebbe messo in crisi il capitalismo, invece, come si è visto, il capitalismo ha messo in crisi la democrazia. Il riformismo in Italia è stato segnato dalla peculiarità della nostra storia. “La irrazionale composizione demografica”, in cui operavano da zavorra i “pesi”, i “pensionati della storia” (Gramsci), fa da sfondo alla fragile egemonia della borghesia, che si è venuta costituendo nel lungo periodo, a ridosso del clero e delle rendite. E le rendite sono venute assumendo forme storicamente determinate: dalla rendita agraria a quella fondiaria e, da ultimo, a quelle finanziarie in cui hanno giocato e giocano un ruolo determinante la politica e il potere.
La politica e il potere hanno assunto il carattere di fattori della produzione: mercificazione della politica e politicizzazione dell’economia si sono combinate e hanno contribuito a strutturare blocchi sociali e politici, “blocchi storici”. Questo ambiente storico politico ha conferito al compromesso socialdemocratico, che nel Nord Europa si è realizzato in forma compiuta,6 una carattere “anomalo” e, insieme, ha impresso alle riforme economiche (più minacciate che attuate) un potenziale dirompente in ordine agli assetti di potere. Valga un esempio: la rottura del blocco agrario, determinata dalle lotte per la terra alla fine degli anni Quaranta, non fu caratterizzata soltanto dalla distribuzione delle terre ma anche e soprattutto dal ricambio delle classi dirigenti: i braccianti, i contadini, gli operai sostituivano gli agrari e i “Luigini” di leviana memoria nelle cariche di sindaci nei comuni interessati da quelle lotte. E questo ricambio non fu soltanto di personale politico, ma soprattutto di interessi rappresentati. Su questo terreno si comprende meglio la forza del Pci e del suo ruolo rispetto alla debolezza della socialdemocrazia. Così come si dovrebbero comprendere, ancora oggi, la necessità e il ruolo di una sinistra antagonista e “l’impotenza del riformismo” a cui, perciò, appare velleitario e sbagliato rimediare con la costituzione del Partito democratico. Questo, stando ai suoi elementi fondativi, dovrebbe continuare il “riformismo” nella versione povera, quella tutta gestionale e tutta acconciata nell’esistente. E ancora, il sistema guerra-precarietà sta elaborando un tipo umano, come peraltro già il fordismo aveva fatto. Mutano i rapporti con il mondo emotivo, il corpo, la natura, il lavoro: su tutto dominano il consumo, la mecificazione, l’arrembaggio o l’abulia. Muta il rapporto col tempo: esso è contratto nel presente.7 Orazio, Leopardi, Nietsche si sono seduti e ci hanno fatto sedere sulla soglia dell’attimo per reggere l’idea del naufragio nel nulla, la precarietà, il pensiero unico ingabbiano nel presente perché non vi è una prospettiva da coltivare. E senza futuro la democrazia, luogo della progettazione, viene ridotta a involucro vuoto.8 Hanno fatto un deserto. Ma il deserto è, nella simbologia biblica e mitica, anche il luogo dei profeti, dei messia e, più laicamente, della nottola di Minerva. Si incontra, qui, con un riferimento solo formalmente diverso, la contraddizione che fu contestata a Marx: se la classe operaia, le lavoratrici e i lavoratori subiscono un processo così profondo di alienazione, di mercificazione e, noi potremmo aggiungere, di scorificazione, come possono farsi protagonisti della liberazione di ciascuno e di tutti o, guardando al presente, della costituzione di una nuova democrazia? La risposta è nota: l’uomo e la donna sono merci speciali, conservano, al peggio, brandelli di coscienza su cui si innesta la consapevolezza critica di massa e da cui riparte la dialettica sociale storica. Questa risposta, nell’epoca dell’irruzione del fattore cognitivo e delle donne nel mercato, si carica di nuovi significati e di nuove potenzialità. Un solo esempio: la precarietà è privazione di lavoro, di casa, di famiglia ecc, ma è anche, con tutte le ambiguità, privazione di dipendenza, di obbedienza e, dunque, questa condizione potrebbe risolversi in una maggiore disponibilità alla padronanza di sé e all’antagonismo. Questo è il terreno della politica, che deve misurarsi con vecchi e nuovi spazi. Lo spazio tradizionale della politica è stato quello compreso tra i bisogni e le istituzioni o, se si preferisce, tra i desideri e le norme. I bisogni negli ultimi 20- 25 anni hanno subito, nell’ambito di quella più generale della Storia, una mutazione, che segna la nostra epoca: da elaborazione sociale, i bisogni, sono stati ridotti nel senso comune, a determinazioni della natura, della biologia. E se i bisogni sono un fatto naturale e biologico, essi non richiedono politica, progetti, elaborazioni e relazioni sociali, ma esperti, tecnici e arida gestione. Uno stato e un’economia di derivazione naturale e biologica producono e usano un “uomo senza qualità”. Nel senso opposto, però, al modello umano di Musil: questo, proprio perché non pietrificato nel “segno”, nell’attimo e nell’angoscia dell’imprevedibile come l’uomo econonomico, amministrativo e precario dei nostri giorni, sapeva misurarsi con l’ordine molecolare del diamante e con il disordine della nuvola, con l’esattezza della matematica e con il tumulto dell’anima. Insomma deve essere ridefinito lo spazio della politica. Nel tempo del lavoro cognitivo, dell’economia della conoscenza, della vita del corpo soprattutto della donna come laboratorio del capitalismo del futuro (Sara Ongaro),9 la politica deve anticipare la sua azione al momento della formazione dei bisogni e del loro adattamento alla produzione. La ricostruzione dell’agire politico Qui si misura la insufficienza della democrazia rappresentativa, per altro profondamente in crisi, ed emerge il bisogno prevalente dell’intervento dal basso.’° Sul terreno della ricostituzione della politica e della democrazia partecipata si profila il nuovo orizzonte della trasformazione sociale. Il “gattomorto” della trasformazione sociale, a dispetto di molti ammazzagatti torna a vivere, soprattutto per merito dei movimenti altermondisti, della cultura e della pratiche femministe e di nuove letture del pensiero rivoluzionario. Produce ancora una forte stretta emotiva la lettera di Claudio Napoleoni ad Augusto del Noce, dell’aprile del 1988,11 in cui perviene, con- dividendola con Del Noce, alla drammatica idea dell”autodissolvimento del pensiero rivoluzionario”. Marx non fu aiutato dall’economia, a cui si rivolse, non perché, essendo materialista doveva dare risalto alla base materiale della storia umana, ma per costituire il lato soggettivo e il lato oggettivo della dialettica storica: un soggetto, cioè, che fa da sé la propria storia, ma la fa in condizioni determinate: sfruttamento e teoria del crollo, che erano posti a fondamento del materialismo storico traevano la loro ragione dalla teoria ricardiana del valore-lavoro. Questa teoria è “falsa”, dice Claudio Napoleoni, e in campo non stanno sfruttatori e sfruttati, ma la “cosa”, la società tecnocratica, che assorbe nei suoi meccanismi tutti i soggetti. E allora la domanda che pone a Del Noce è: quale politica per uscire dalla società tecnocratica, posto che nella politica debba essere ricompresa la rivoluzione? Non bisogna riprendere a ragionare anche intorno al rapporto politica-religione? Non si sfugge ad alcune inquietanti suggestioni, dall’intervista di Heiddeger, del 1966, “Ora solo un dio può salvarci”, alla teologia della liberazione e, su tutt’altro fronte, al fondamentalismo islamico. Quando “la tendenza fondamentale del nostro tempo”,12 cioè l’organizzazione tecnologica della produzione e della vita si fonda sull’immateriale e quando l’elettronica, le nanotecnologie, le manipolazioni hanno come campo d’azione il corpo della donna e dell’uomo, si avverte tutta l’importanza dell’attenzione di Napoleoni alla dimensione soggettiva, sovrastrutturale: alla razionalità, alla coscienza certo, ma anche al loro oltre, al sacro.
Quell’estremo “cercare ancora” dà rimorsi. Ernesto De Martino racconta che nel quartiere “La Rabatana” di Tricarico, abitata da contadini e braccianti poveri, si verificò una diffusa conversione alla religione evangelista come risposta al cattolicesimo, religione degli agrari. Quella umanità umile e orgogliosa dopo poco elesse a sindaco di Tricarico il poeta socialcomunista Rocco Scotellaro. Altro che “religione oppio dei popoli”! Che cosa e come produrre Questi riconoscimenti al pensiero di Napoleoni non intendono circoscrivere l’esperienza, la ricerca alla sfera soggettiva. Anche la base materiale del marxismo è stata rivisitata in modo fecondo. Ne sono una eloquente testimonianza i saggi di Bellofiore e Garibaldo.’ Il capitalismo centralizza i comandi tecnici e disperde e frantuma il mondo del lavoro, la globalizzazione, il modello asiatico, la politica monetaria continuano a produrre “quell’infernale mulinello legato alla terna lavoratore spaventato- risparmiatore terrorizzato - consumatore indebitato”, che crea un situazione medita, rilevabile soprattutto negli Usa. A questo stato di cose non si risponde col keynesismo, né col conflittualismo ingenuo dell’incompatibilità salariale, avverte Bellofiore. Bisogna rispolverare gli strumenti dell’analisi marxiana del “valore”: “il denaro come capitale, il lavoro vivo come sorgente del neo valore.
Dunque un’analisi di classe che si prolunghi in un intervento di politica economica, che ponga immediatamente in primo piano il problema del che cosa del come produrre. Una ridefinizione strutturale dell’offerta e della domanda, che assuma il punto di vista del lavoro come centrale”. Torna anche dal versante strutturale la possibilità, se non più la necessità, della trasformazione, della ricomposizione del mondo del lavoro. In questo processo un ruolo decisivo svolgono già le donne lavoratrici. Esse portano “al mercato” i problemi di cura, della maternità e, così facendo, i ritmi, le forme della sfera riproduttiva, pur tra mille difficoltà, possono contribuire a trasformare la qualità dell’ambito produttivo (Lia Cigarini).’ C’è, mi pare, una contraddizione, non fondamentale, nell’immediato. Gramsci sosteneva che il soggetto o i soggetti storici (... ma è il caso nostro?) debbono essere egemoni anche prima di andare al governo o di prendere il potere. Il nostro partito e la sinistra riformista sono al governo mentre l’egemonia è ancora nelle mani del capitalismo. La contraddizione c’è non si deve eludere. La scelta di agire in un rapporto ravvicinato con forze portatrici di interessi divaricati e a volte confliggenti con quelli di cui noi siamo rappresentanti è giusta, anzi necessaria. Il modo in cui stiamo nelle contraddizioni va sottoposto a una elaborazione e a una verifica permanenti. Una pratica, anzi una prassi feconda ai fini dell’alternativa consiste, lo sappiamo, nello stare dentro e insieme oltre le contraddizioni. “Oltre” significa “autonomia”.
L’autonomia, però, è un metodo, e il metodo o si incorpora in contenuti paradigmatici significativi osi riduce a patrimonio dei nullatenenti, come diceva un pessimo maestro. Faccio qualche esempio: la pace, la non-violenza nel tempo dell’arma universale e della manipolazione del Dna. Viviamo e operiamo nel pieno svolgimento di una transizione di egemonia, come se ne sono verificate altre poche nel corso di oltre cinque secoli, l’Olanda sulle città-stato, l’Impero britannico’ sull’Olanda, gli Stati Uniti sull’Impero britannico. Tutte svoltesi con esiti catastrofici, perché le nazioni egemoni declinanti hanno imboccato la via della guerra invece che della mediazione con le nazioni ad egemonia emergente. La guerra preventiva rappresenta lo strumento di una politica a prospettiva catastrofica, questa volta a dimensione planetaria. La qualità della politica e del potere
Ecco perché la critica del governo alla guerra preventiva assume un valore strategico rilevante, ma non sufficientemente rilevato. Altri contenuti discriminanti riguardano la difesa e la valorizzazione del lavoro; la qualità delle relazioni nella società, dando spazio all’altro sguardo sulla realtà, all’altro linguaggio di cui è capace il mondo femminile, con l’ambiente; la natura pubblica dei beni comuni, dei componenti non negoziabili della vita e della conoscenza.Quando la sostanza delle contraddizioni e dell’impegno politico, oltre che democratico, attinge l’estrema frontiera della salvaguardia della specie umana e della biosfera, allora le contraddizioni domandano risposte che non possono esaurirsi in un atto, in un voto, in un provvedimento, ma debbono avere il carattere della costruzione, del processo. Così l’impegno politico si deve incontrare gramscianamente con l’etica, si deve fare riforma intellettuale e morale. L’egemonia della sinistra si ricostruisce sui fondamenti e sulla loro proiezione pratica, sulle grandi coordinate dell’altra società: con al centro la persona umana e la sua liberazione, il rispetto dei viventi non umani. L’uguaglianza, come nella più alta tradizione della cultura europea è e deve restare il punto di riferimento della libertà. Ma essa non può essere concepita come una categoria universale, come un valore grigio, ma deve essere vissuta nella sua articolazione, nelle sue differenze, nel suo carattere sessuato. Insomma si deve profilare un orizzonte strategico dentro cui collocare la quotidianità e dentro cui far agire con coerenza i soggetti politici della trasformazione. In questa opera, ardua ed insieme possibile, sono centrali i movimenti, i quali, pur dando rappresentanza a bisogni ed istanze separate, sono portatori di una grande domanda di cambiamento generale. La scelta necessitata della non-violenza non esprime una linea di convivenza pacificata tra forti e deboli, sarebbe altrimenti una scelta a favore dei forti, ma significa la volontà di costruire ed animare conflitti sociali “civilizzati”. In discussione, dunque, è la qualità della politica, della democrazia, del potere, perché essa riflette e cura prevalentemente bisogni singolarizzati e interessi particolari. La politica, se così stanno le cose, deve costituire e aprire spazi, in cui, attraverso l’intervento delle donne e degli uomini, della loro intelligenza, sensibilità, corporeità, si pervenga a una elaborazione e interpretazione collettive del significato di “interesse generale”che non possono essere delegate soltanto alle assemblee elettive e, tanto meno, agli esecutivi.
Anche la domanda, reale e diffusa, di unità delle sinistre nuove, non da esigenze organizzative, ma da istanze sociali e culturali frustrate e sconfitte, a cui occorre fornire in tempo utile risposte e cittadinanza. Ha ragione chi sostiene che nella costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, bisogna valorizzare il patrimonio socialista del ventesimo secolo e che va sottoposta a severa critica l’esperienza del comunismo, soprattutto di quello reale, ma non solo. Sarebbe, però, una concessione gratuita al revisionismo povero, se si decretasse o accettasse che una darnnatio memoriae si abbattesse in particolare su quel corpo di teorie e di pratiche che grandi intellettuali, anche di ispirazione non marxista, chiamarono “Umanesimo comunista”, la cui “inattualità”, non per obosolescenza ma per ingiustizia, direbbe George Steiner’ è una delle possibili ragioni del “pensiero triste”. •